Un’altra poesia da rileggere ogni tanto: Invictus

Invictus

Dalla notte che mi avvolge,
Nera come la cavità tra i poli,
Ringrazio quali che siano gli déi
Per la mia indomabile anima.

Nelle grinfie feroci degli eventi
Non mi sono arreso né ho gridato.
Sotto le randellate della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.

Oltre questo luogo di collera e lacrime
S’intravede solo l’Orrore dell’ombra,
Ma ancora la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto angusto è il passaggio,
Quanto carica di punizioni la lista,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

William Ernst Henley

(traduzione di Nicola Guerra)

 

Henley era un poesta e giornalista inglese nato a Gloucester nel 1848. A 12 anni di ammalò di tubercolosi, che degenerò nel morbo di Pott obbligando i medici ad amputarli una gampa per salvargli la vita. Nonostante queste mantenne una eccezionale vitalità: il figlio del grande scrittore Robert Louis Stevenson lo descrisse “un grosso, sanguigno individuo dalle spalle larghe con una gran barba rossa e una stampella; gioviale, sorprendentemente arguto, e con una risata che scrosciava come musica; aveva una vitalità e una passione inimmaginabili; era assolutamente travolgente”. Sembra che a lui Stevenson si sia ispirato per creare il personaggio di Long John Silver ne L’isola del Tesoro.

Una energia travolgente quindi, capace di aggredire le difficoltà della vita e di rovesciarle: un po’ come fa la grande spadaccina Bebe Vio oggi.

Uno studio su questa poesia si può trovare qui, ma effettivamente a quanto pare non esiste ancora uno studio completo su questo poeta in italiano. 

La poesia è famosa perché ispirò Nelson Mandela durante i lunghi hanni di detenzione durante la sua lotta per i diritti civili in Sudafrica. 

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